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Dub Pistols come pionieri. Come avanguardia di un clash fra musica in levare, elettronica e bass sound. La perfetta unione di un matrimonio artistico fra la scena Jungle e Drum And Bass con quella Dub e più ampiamente giamaicana. Non è un caso che tutto questo avvenne qualche anno dopo la massiccia migrazione del popolo giamaicano verso la terra della Regina, dei Pub e dei Beatles. Li cito proprio per confermare quanto l’Inghilterra (e in senso più ampio il Regno Unito nda) abbia contribuito alla miscelazione di diverse paste sonore, creando nel corso dei decenni: innovazione, cultura, movimenti culturali, sociali.

Niente di nuovo direte voi. Ma se c’è un dettaglio che spesso manca nelle classiche pubblicazioni da libreria è l’importanza della musica elettronica nel panorama anglosassone. Chiaro che, monoliti come i sopracitati Beatles ma anche Sex Pistols, Elton John e moltissimi altri (potrei andare avanti per giorni nda.) fanno spesso ombra negli editoriali che descrivono questo splendido scenario musicale.

I Dub Pistols, nascono a metà degli anni 90 per volontà dei due founder Barry Ashworth e Jason O’ Bryan. In quegli anni i telefonini e la tecnologia entravano sempre di più nelle case delle persone, tanto da rendere accessibili, a moltissime tasche, prodotti e tecnologie che fino a qualche anno prima erano fantascienza. Il concetto del gaming entra prepotentemente nelle case, subito dopo l’ingresso del personal computer. La Sony pubblica la sua prima console game “Playstation”. Ok, per molte e molti di voi ripensare a quella scatola di plastica grigia, con i black disk e la memory card fa scendere una lacrimuccia di nostalgia. Immaginate per tutte quelle primissime software house che programmavano i primi videogame diventati poi dei veri e propri blockbuster. L’attenzione alla colonna sonora era alta in quegli anni. Sarà che forse erano decadi dove si ascoltava davvero bella musica, in senso stretto del termine. Ma l’imbarazzo della scelta era decisamente elevato. Nel 1998 esce Cyclone, primo singolo dei Dub Pistols e subito fanno capire di che pasta son fatti.

Molti di voi conosceranno la serie Tony Hawk’s Pro Skater. Un simpatico omino digitale che sfida l’impossibile con la sua tavola da skate. Erano gli anni del Big Beat e la proposta dei neonati Dub Pistols andava perfettamente nella direzione giusta. Ritmo incalzante e quella latente vena Ska, Rocksteady di sottofondo con il brass teams che se la suona molleggiato. Si presentano così i Dub Pistols: nel mondo dell’intrattenimento digitale e casalingo. Vena che non abbandoneranno in tutta la loro carriera. Negli anni successivi infatti, compaiono in numerose colonne sonore come Blade II, Bad Company, Piranha 3D e Mystery Men, lasciando sempre il segno. Ma la rivoluzione del suono è solo all’inizio.

Infatti in queste proposte il progetto Dub Pistols, non riesce a sfogare le vene musicali che fanno correre le vibrazioni attraverso le loro radici essendo principalmente proposte copia di altri riddim Big Beat, Funk ed Hip Hop. Non è una colpa nella loro discografia, assolutamente! Ma un dato di fatto che li ha portati comunque ad un consolidamento della loro proposta artistica. Proposta che si svilupperà negli anni successivi.

Dub Pistols

 

Nel 2001 arriva il colpaccio. Appare negli scafali “Six Million Ways to Die” poi ripubblicato qualche anno più tardi dalla Brixtown Records. Parliamo di un vero capolavoro della musica elettronica, Dub, Reggae. 12 tracce coinvolgenti figlie, forse, di quella grande gavetta svolta negli anni precedenti. Niente appare per caso. Come non potrebbe essere così con tracce come Problem Is o 6AM che chiude uno degli episodi più interessanti della loro carriera. Un vero e proprio ibrido: tante influenze ma tutte miscelate alla perfezione. Non ci si stanca mai di ascoltare questo disco fatto di continui sali e scendi fra Big Beat, Trip Hop, Break, Dub, Reggae. Un connubio incredibile che raramente si era udito nel mondo underground inglese. No. Nelle charts non ci finiranno i Dub Pistols se non in bassa classifica, ma questo non li ha mai fermati e non è un elemento, a mio avviso, che abbassa la potenza musicale ed artistica della loro proposta. E lo scrivo con cognizione di causa, credendo fermamente che progetti come questi (ed altri nda.) siano stati il cemento, i mattoni per la creazione di ulteriori filoni musicali che ancora oggi invadono radio, televisioni ed eventi. Insomma: erano lì quando è sorto il sole o forse lo hanno creato anche loro, in questo specifico ambito musicale.

 

Dub Pistols

 

Nel 2007 arriva un altro fulmine a ciel sereno. E questo è un fulmine davvero bello grosso. Parliamo del loro secondo full-length intitolato Speakers & Tweeters dove il progetto comincia a mostrar davvero (a mio modesto avviso) le sue radici musicali: Ska, vibrazioni giamaicane, Rocksteady, Dub che si interseca con l’RNB e il Trip Hop (che in quegli anni la vinceva alla grande). Terry Hall su “Running From The Thoughts” è un capolavoro ibrido fra Reggae, Dub, Hip Hop, RNB: incalzante, ritmica, melodica, produzione sonora eccelsa. Arrangiamento che convince per la sua semplicità e per la sua limpidezza. Qui si vola in alto. E non ci si ferma. Mach 10, Stronger e la firma di pure Dub assieme a Rodney P in You’ll Never Find. Capolavoro che lascia senza parole.

Nel 2009, esce Rum & Coke. Un disco che ripercorre le radici del predecessore e, per questo, ne fa fratello maggiore. Intendiamoci: con fratello maggiore non voglio dare a questo disco lo scettro di creatore del sound dei Dub Pistols, ma sicuramente la definizione ufficiale del suono. Back to Daylight con uno splendido Ashley Slater alla voce è qualcosa che va ben oltre alla connotazioni di genere musicale: qui c’è di tutto. È pop. Cazzo tremendamente pop. Quel pop che farebbe tremare gli attributi a tutte e tutti coloro che si reputano antagonisti nei confronti di musica semplicemente bella perchè pop.

Ascoltando Keep The Fire Burning con Justin Robertson, ti senti catapultato dentro ad un Rude Club di uomini e donne che ballano scatenate a suon di… non si capisce perfettamente. Le diverse influenze, oramai totalmente fuse fra di loro, rendono questa traccia oggettivamente indefinibile. Ma è splendida. Su tutta la linea. Ritmo, FX tipici del mondo Dub, fiati regali e decisamente rude. Un capolavoro.

La lancetta del tempo procede e corre anche sui Dub Pistols. Nel 2010 Jason O’ Bryan, uno dei due fondatori del progetto, decide di abbandonare la nave. Le motivazioni rimangono oscure a molti e a molte. E sinceramente quasi tutti credono nella fine ufficiale del progetto Dub Pistols. Niente di più sbagliato. I tempi cambiano, le sonorità crescono e si modificano modellandosi come le città. L’elettronica e la cassa sui quarti, oramai da anni è un must nei club di tutto il mondo. L’esule Barry Ashworth, decide di buttarcisi dentro a fondo. E nasce così nel 2012 stampato da Sunday Best Recordings, Worshipping The Dollar.

Alive cavalca il dancefloor dei club mondiali, West End Story la si sente risuonare nelle strade dei sobborghi inglesi. Hip Hop, Dance, Elettronica e quella matrice Dub, Reggae mai abbandonata. Una vera e propria danza musicale d’integrazione fra chi come la gioventù e la generazione bianca inglese si ritrovava nei club della Londra bene e la popolazione migrante ormai ben incastonata, inserita, dominante per giunta in moltissimi settori e quartieri poco più in là. Un miracolo  guardando il calendario 2012: Putin ancora presidente della Russia, la grande crisi economica del vecchio continente che comincia sempre di più a generare disuguaglianze e tensioni sociali e l’incalzante rivalsa dei movimenti populisti, razzisti e nazionalisti ovunque nel mondo. Non dimentichiamoci mai di quando e come un disco viene pubblicato. Non è demagogia, ma cronologia oggettiva che va studiata ed interpretata con le proprie sensibilità.

Seguono remix, singoli, concerti in tutto il mondo. E sono uno più figo dell’altro.

Il ritorno sulle scene arriverà, dopo Worshipping The Dollar, nel 2015 con Return of The Pistoleros: disco decisamente Jungle, Drum And Bass. Cavalcate una dietro l’altra. Da notare la presenza di Earl 16 in Roll And Come In, forse fra le poche tracce collegabili al mondo della bass music intesa come Dub assieme alla conclusiva Our Life. Un disco che in realtà, è un mezzo passo falso. Il videoclip e gli ascolti non rendono giustizia a questo tassello della loro discografia. Un buon disco, forse leggermente inferiore per scelta dei suoni rispetto ai precedenti ma sicuramente non da sottovalutare. Forse i tempi stanno cambiando e la possibilità di perdere l’onda è ormai chiara. Serve un ritorno alle radici. Serve una rincorsa. Due anni dopo, nel 2017 esce Crazy Diamonds: un capolavoro assoluto ma ahimè è troppo tardi.

MC Navigator ci accoglie con London Calling: one-drop splendido (già ampiamente interpretato dagli stessi Dub Pistols nel corso degli anni, vero Chinese Man Records? nda) con quelle sonorità break e Dub che fanno di questa traccia come il manifesto del ritorno del progetto musicale. La La La ci fa scoprire l’Hip Hop, Baby I Love You ci scarica nel vortice del Dub più oscuro ed avanguardistico, Kingdom con la presenza del grandissimo Cutty Ranks è una piccola grande perla di musica in levare: basso coprente, avvolgente e riddim d’assalto.

 

Insomma, sembra proprio il momento della rinascita, quel cosiddetto colpo di coda che cambia in pochi mesi la situazione. Ma la realtà è che il progetto lentamente comincia a posizionarsi ai margini del music business. Il tempo corre veloce ed è complicato rivalersi delle proprie gloriose origini senza sembrare old, anacronistico. È un dato di fatto, ma lo è anche il fatto che questo progetto è da considerarsi fra i più innovativi, sperimentali e di successo degli anni 90 e primi 2000.

Nel Ottobre del 2020, il progetto pubblica Addict dalle fortissime matrici Drum And Bass.

 

Non voglio dimenticare ciò che i Dub Pistols hanno creato per la musica Dub, Break, Big Beat ed elettronica in generale. Forse un giorno tutto questo potrà tornare alla ribalta, riconquistando palchi e festival come è giusto che sia, ma nel frattempo continuerò a studiare ogni singolo minuto della loro discos, per scoprire come in un periodo storico-musicale come quello vissuto dal progetto siano riusciti ad unire più tasselli di un mosaico che a cavallo del nuovo millennio sembrava impossibile da definire. Li voglio continuare a ballare. Rimando assieme a tutti quegli esuli di quegli anni gloriosi.

 

 


 

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